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Sport e ICD: quali i rischi?

Intervista a Pietro Delise, UO di Cardiologia Ospedale di Conegliano.

Un recente articolo pubblicato su Circulation sembrerebbe dimostrare che i soggetti portatori di ICD possono fare sport anche ad alta intensità senza rischi particolari. Ma questi dati confortanti sembrano essere in contrasto con quanto normalmente ritenuto e fanno apparire le linee guida italiane eccessivamente prudenti…

Qual è la normativa in Italia in tema di idoneità allo sport?

Dal 1971 in Italia la Legge prevede che la tutela della salute dello sportivo agonista non sia su base individuale ma garantita dallo Stato. Come conseguenza l’idoneità allo sport è condizionata dall’emissione di un certificato di idoneità da parte di un medico specialista in Medicina dello Sport. Il certificato è obbligatorio dopo i 12 anni e per tutte le discipline che rientrano nelle Federazioni Sportive affiliate al CONI.

In Italia i portatori di ICD possono fare sport?

Molti soggetti portatori di ICD presentano una grave cardiopatia strutturale che di per sé controindica la pratica dello sport agonistico. Secondo le linee guida italiane (COCIS) nei soggetti portatori di ICD con funzione cardiaca normale o solo lievemente compromessa può essere concessa l’idoneità sportiva solo per attività ludiche o agonistiche a minimo impegno. Sono esclusi anche da questi sport i soggetti in cui l’aumento dell’attività simpatica correlata allo sforzo fisico ha un effetto favorente sulle aritmie maligne di cui il paziente è affetto (ad esempio, la sindrome del QT lungo congenita, cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, tachicardia ventricolare catecolaminergica ecc.). L’eventuale idoneità può essere concessa solo dopo almeno 6 mesi dall’impianto del defibrillatore o dall’ultima aritmia che ne abbia richiesto l’intervento.

Quali problemi possono avere i soggetti con ICD che fanno sport (agonistico e non agonistico)?

I portatori di ICD che praticano sport possono avere i seguenti problemi:

  • shock inappropriati durante tachicardia sinusale;
  • perdita del controllo motorio legati all’evento aritmico e allo shock dell’ICD con conseguenti traumi fisici. Questo rischio riguarda essenzialmente i soggetti che praticano sport definiti “a rischio intrinseco”, in cui la perdita del controllo anche per pochi secondi può avere effetti disastrosi: automobilismo, alpinismo, sport subacquei ecc.;
  • shock inefficaci nell’interrompere un’aritmia maligna favorita dall’esercizio fisico intenso.

Al fine di evitare gli shock inappropriati negli sportivi sono utili alcuni accorgimenti:

  • attivare gli algoritmi di discriminazione tra tachicardie sopraventricolari e ventricolari oggi disponibili;
  • programmare il limite minimo di frequenza per il riconoscimento di una tachicardia ventricolare tarandolo sulla risposta spontanea del singolo soggetto durante sforzo. Ad esempio, se il soggetto raggiunge spontaneamente sotto sforzo la frequenza sinusale di 180/min il criterio di programmazione per il riconoscimento della tachicardia ventricolare deve essere superiore a 180/min. Il riconoscimento del cut off individuale andrebbe fatto in base al test di Holter e al test da sforzo;
  • informare correttamente il paziente per un autocontrollo con l’ausilio del cardiofrequenzimetro;
  • gli sport di contatto (ad esempio, il calcio), a rischio di cadute (ad esempio, lo sci) e quelli che comportano reiterati movimenti del cingolo scapolo-omerale (ad esempio il golf e il tennis) possono provocare dislocazioni o danni ai cateteri e/o al generatore. In queste ultime attività una precauzione utile è impiantare il sistema dalla parte opposta all’arto utilizzato abitualmente.

Un recente articolo di Lampert e colleghi pubblicato su Circulation sembrerebbe dimostrare che i soggetti portatori di ICD possono fare sport anche ad alta intensità senza rischi particolari.

Questo lavoro è basato su un registro multicentrico internazionale che ha raccolto una casistica di 413 soggetti con ICD portatori di diverse cardiopatie (cardiomiopatia ipertrofica, cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, malattie dei canali ionici inclusa, la sindrome del QT lungo e la tachicardia ventricolare catecolaminergica ecc.). L’ICD era stato impiantato sia in prevenzione primaria e secondaria (155 casi avevano avuto tachicardia ventricolare o fibrillazione ventricolare). Tutti questi soggetti erano impegnati in sport ad alta intensità (calcio, basket, baseball, ciclismo, sci ecc.).
Il dato più importante del lavoro è che durante il follow up (in media 31 mesi) nessuno è morto e non si è verificato un eccesso di malfunzionamenti dei dispositivi. Inoltre, in molti casi l’ICD è intervenuto durante aritmie insorte durante sforzo, ma sempre in modo efficace e in nessun caso è stato necessario intervenire con una rianimazione esterna.

Questi dati confortanti sembrano essere in contrasto con quanto normalmente ritenuto e fanno apparire le linee guida italiane eccessivamente prudenti…

Il lavoro di Lampert certamente fornisce delle informazioni interessanti su un tema povero di dati scientifici. Infatti, l’unico lavoro precedentemente disponibile era una survey del 2006 che riportava un intervento dell’ICD durante sport in oltre il 40% dei soggetti, senza tuttavia conseguenze gravi.

Non va però dimenticato che il lavoro presenta una serie di limitazioni che non possono essere trascurate:

  • trattandosi di un registro, l’arruolamento è stato su base volontaria e quindi la casistica è inevitabilmente selezionata;
  • sono stati ammessi soggetti con cardiopatie diverse, di cui non è possibile conoscere la gravità. Ad esempio, una cardiomiopatia ipertrofica ha un diverso rischio a seconda del grado di ipertrofia ecc.
  • il follow up è relativamente breve, per cui non è possibile conoscere gli effetti negativi dello sport a lungo termine specie nelle patologie potenzialmente evolutive come la malattia aritmogena del ventricolo destro e la cardiomiopatia ipertrofica.

Infine se è certamente vero che in questo lavoro non si sono verificati gli eventi più temuti e cioè la morte dei pazienti o la necessità di manovre rianimatorie complesse, è anche vero che si sono verificati eventi significativi che devono essere ricordati:

  • nel 18% dei soggetti l’ICD è intervenuto durante attività fisica (10% durante attività sportiva agonistica). In circa la metà dei casi si è trattato di shock appropriati e nei rimanenti di shock inappropriati;
  • nel 2% dei soggetti l’ICD è intervenuto con shock multipli;
  • 2 soggetti hanno avuto una tachicardia ventricolare non riconosciuta dall’ICD, che ha richiesto lo shock esterno;
  • in un soggetto l’ICD è intervenuto su una tachicardia sinusale inducendo una tachicardia ventricolare,
  • l’ICD è intervenuto più frequentemente durante attività fisica che a riposo.

Tradizionalmente gli statunitensi rispetto agli italiani sono molto più permissivi in fatto di attività sportiva nei soggetti con patologie cardiache. Come si spiega questa differenza?

Il motivo principale è che gli statunitensi mettono al centro del sistema l’individuo la cui libertà di scelta e l’autodeterminazione sono considerate un diritto irrinunciabile. Nel suo lavoro Lampert lo dice chiaramente: “i giovani con ICD soffrono il fatto di non sentirsi più normali e la restrizione dello sport ne riduce la qualità della vita molto più dell’esperienza dello shock. Solo il paziente può stabilire cosa è meglio per se stesso”.
In Italia la prospettiva è diversa. In realtà a un paziente con ICD non è vietato di comportarsi come meglio crede nella sua vita privata, ma le cose cambiano se si tratta di sport agonistico. In Italia infatti lo sport agonistico viene espletato all’interno delle Federazioni affiliate al CONI ed è considerato un evento pubblico, e come tale soggetto a una regolamentazione. In tema di salute, la regolamentazione ha sia lo scopo di proteggere lo sportivo da eventi dannosi per esso stesso sia di evitare spettacoli emotivamente devastanti come la morte improvvisa o l’arresto cardiaco sul campo.

Al di là delle leggi e dei regolamenti lei cosa ne pensa?

Personalmente sono tendenzialmente un liberale e riconosco che il sistema Italiano pur offrendo degli indubbi vantaggi, può offrire il fianco al rischio della medicina difensiva. Non dimentichiamo che il medico sportivo ha una responsabilità legale e non si contano più le cause penali e civili contro i medici e i cardiologi dello sport. Ne deriva la possibilità che alcuni medici possano avere un atteggiamento eccessivamente protettivo non tanto dello sportivo ma di se stessi.

Nel caso specifico del lavoro di Lampert non nascondo di avere diverse perplessità su alcuni punti:

  • circa il 40% dei soggetti inclusi nello studio avevano già avuto prima dell’impianto dell’ICD una tachicardia ventricolare/fibrillazione ventricolare  e in un quarto di questi l’evento aritmico si era verificato durante sforzo;
  • le patologie più frequenti erano la sindrome del QT lungo, la cardiomiopatia ipertrofica, la malattia aritmogena del ventricolo destro e , in misura minore, la tachicardia ventricolare catecolaminergica cioè condizioni in cui notoriamente lo sforzo fisico puo’ favorire la comparsa di aritmie maligne e provocare morte improvvisa.

In sostanza ho dei seri dubbi sulla opportunità di suggerire lo sport in questo tipo di pazienti perché la loro prognosi potrebbe essere influenzata dal numero di episodi aritmici.

Infine, penso vada sottolineato che in alcune cardiopatie, come la malattia aritmogena del ventricolo destro e la cardiomiopatia ipertrofica, lo sport può favorire la progressione della patologia. In questi casi l’aritmia ventricolare non va interpretata come un evento elettrico primitivo ma come la conseguenza di un substrato organico che è l’elemento centrale della prognosi.

29 luglio 2013

Bibliografia
Lampert R, Olshansky B, Heidbuchel H, et al. Safety of Sports for Athletes With Implantable Cardioverter-Defibrillators. Circulation 2013; 127: 2021-30 doi: 10.1161/

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