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Bridging or no bridging, questo è il dilemma!

Lo studio BRIDGE pubblicato sul NEJM entra nel merito della delicata gestione perioperatoria nei pazienti affetti da fibrillazione atriale in terapia anticoagulante orale: la strategia no bridging è paragonabile alla terapia ponte in termini di prevenzione di eventi tromboembolici, ma si traduce in un maggiore riduzione del rischio di sanguinamenti maggiori.

Il management dei pazienti che necessitano di interrompere la terapia anticoagulante orale (TAO) per essere sottoposti ad interventi chirurgici o a procedure invasive risulta essere particolarmente complesso e richiede la collaborazione tra diverse figure mediche. Per valutare l’attuale pratica clinica, l’American College of Cardiology Anticoagulation Work Group ha ideato una indagine in cui diversi professionisti tra cardiologi (nelle differenti sub-specialità), internisti, gastroenterologi e ortopedici erano interrogati sulla modalità di gestione dei pazienti che assumono TAO, candidati a procedure invasive e ad interventi chirurgici (1).

Ad oggi, la disponibilità dei nuovi anticoagulanti orali ad azione diretta (DOACs) ha complicato ulteriormente il processo decisionale, già di per sé macchinoso. A tal proposito, infatti, le linee guida forniscono soltanto delle raccomandazioni generali. Lo studio BRIDGE (2) pubblicato sul New England Journal of Medicine ha tentato di fornire delle risposte su questioni ancora non risolte, riguardo la gestione peri-operatoria con bridging therapy nei pazienti affetti da fibrillazione atriale che assumono TAO, candidati ad intervento chirurgico elettivo o ad altra procedura invasiva: la strategia no bridging è risultata non inferiore alla terapia ponte con eparina a basso peso molecolare per la prevenzione degli eventi tromboembolici, ma allo stesso tempo ha determinato una riduzione del rischio di sanguinamenti maggiori.

Lo studio

L’analisi è stata condotta per valutare come le diverse figure professionali gestissero, nella comune pratica clinica, i pazienti che assumono TAO, candidati a procedure invasive. L’indagine è stata completata da 945 medici implicati nella gestione dei pazienti in TAO. Dall’analisi dei risultati, la classe professionale più frequentemente coinvolta nel management della terapia anticoagulante durante e dopo interventi chirurgici e procedure invasive è risultata essere quella dei cardiologi. Lo studio ha rilevato che tra i parametri utilizzati più comunemente per identificare i pazienti con aumentato rischio di eventi tromboembolici durante l’interruzione della TAO vi sia l’essere portatori di una valvola cardiaca meccanica, un’anamnesi positiva per pregresso stroke o TIA e un CHA2DS2-VASc score elevato. A tal proposito, è stato sottolineato come, frequentemente, venga utilizzato nella pratica clinica, tale score per indirizzare i pazienti verso l’utilizzo di una terapia ponte, nonostante tale approccio non sia stato mai validato in tale ambito. Sebbene molti pazienti a basso rischio di eventi tromboembolici vengano indirizzati a procedure invasive considerate a basso rischio di sanguinamento senza interruzione della TAO, lo studio ha mostrato che ci sono ancora medici che preferiscono la terapia ponte, esponendo i pazienti ad un elevato rischio di sanguinamento. Ovviamente diversa è stata la posizione in relazione alla figura professionale intervistata: i cardiologi, i cardiologi interventisti e gli elettrofisiologi hanno mostrato una maggiore inclinazione ad eseguire tali procedure senza modificare la terapia assunta. È stata, inoltre, confermata nell’indagine la notevole variabilità nella scelta della dose e della durata della terapia anticoagulante parenterale.

Lo studio ha messo in risalto, inoltre, la problematica relativa alla gestione dei pazienti in terapia anticoagulante con i DOACs: i risultati mostrano un simile utilizzo della bridging therapy nei pazienti candidati ad interventi chirurgici o a procedure invasive, trattati con warfarin e con i DOACs nonostante le caratteristiche farmacocinetiche dei farmaci siano altamente differenti. Nei pazienti che assumono DOACs, tuttavia, a rischio intermedio per eventi tromboembolici e nelle procedure con basso rischio di sanguinamento, infrequentemente, viene utilizzata la terapia ponte. L’utilizzo della terapia anticoagulante parenterale, invece, nei pazienti ad alto rischio trattati con DOACs sottoposti a procedure con più alto rischio di sanguinamento, che richiedono la sospensione della terapia anticoagulante per un lungo periodo, rimane incerto.

Conclusioni

In considerazione della complessità dello scenario che coinvolge molteplici figure professionali, sarebbe opportuno costituire dei protocolli standardizzati e dei modelli di ricerca orientati verso lo sviluppo di percorsi clinici, volti a migliorare la gestione dei pazienti in TAO, candidati ad interventi chirurgici e a procedure invasive.

Germana Panattoni

Bibliografia
1. Flaker GC, Theriot P, Binder LG, et al. Management of Periprocedural Anticoagulation: A Survey of Contemporary Practice. J Am Coll Cardiol 2016; 68: 217-26.

2. Douketis JD, Spyropoulos AC, Kaatz S, et al. BRIDGE Investigators. Perioperative bridging anticoagulation in patients with atrial fibrillation. N Engl J Med 2015; 373: 823–33.

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