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Il defibrillatore nella cardiopatia ischemica

Una rassegna del Giornale Italiano di Cardiologia valuta il ruolo del defibrillatore impiantabile tra evidenze, linee guida e buon senso clinico per una migliore selezione nel “mondo reale” dei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra persistente.

Il defibrillatore impiantabile (ICD) riveste un ruolo importante nella prevenzione primaria della morte improvvisa e nella riduzione della mortalità totale in specifiche categorie di cardiopatici. Tra i massimi beneficiari di questo intervento figurano i pazienti con cardiopatia ischemica e severa disfunzione ventricolare sinistra, che costituiscono la categoria a maggior rischio, la più numerosa e per questo la più studiata.

Se da un lato non mancano le evidenze sull’efficacia dell’impianto di ICD in aggiunta alla terapia ottimizzata, dall’altro non è stato ancora elaborato in dettaglio un algoritmo per selezionare secondo appropriatezza clinica i pazienti a rischio elevato di aritmie fatali. Il solo valore di frazione d’eiezione come unico criterio di selezione per l’impianto appare spesso una ipersemplificazione, non sufficiente per un’appropriata decisione nel singolo paziente, anche se d’altra parte è l’unico basato sull’evidenza.

Nella rassegna pubblicata sul Giornale Italiano di Cardiologia, Laura Vitali Serdoz e colleghi del Dipartimento Cardiovascolare dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria di Trieste esaminano il problema della stratificazione del rischio per morte improvvisa nella popolazione con disfunzione ventricolare sinistra da cardiopatia ischemica. Sulla base dei dati in letteratura analizzano il ruolo di altre variabili cliniche e strumentali predittivi di rischio, oltre alla frazione di eiezione del ventricolo sinistro, che potrebbero essere prese in considerazione nella scelta personalizzata se impiantare o meno l’ICD: la finestra temporale dall’evento infartuale (quando rispettare il periodo di quaranta giorni), l’alternanza dell’onda T, la rivalutazione dei pazienti con cardiopatia ischemica a distanza di tempo dalla rivascolarizzazione, la classe funzionale NYHA, l’età anagrafica, il diabete e l’insufficienza renale cronica. Portando come esempio due scenari clinici del “mondo reale” completano la rigorosa analisi con la stratificazione del rischio nel paziente con multiple comorbilità, alla luce delle analisi condotte da diversi studi che hanno cercato di ricavare un modello multiparametrico (MADIT, MUST, ecc.)

La Rassegna si conclude con un interessante capitolo sugli aspetti etici connessi alla decisione clinica nel mondo reale di porre o non porre indicazione all’impianto di un ICD in mancanza di evidenze certe.

Questioni aperte e ipotesi
“Molto spesso i pazienti arruolati nei grandi trial infatti non rispecchiano la popolazione che incontriamo nella pratica clinica quotidiana caratterizzata sostanzialmente da un’età più avanzata, da un profilo di comorbilità mediamente più complesso, e spesso da un quadro di scompenso cardiaco avanzato. A titolo di esempio, l’età mediana dei pazienti nel braccio ICD degli studi SCD-HeFT e MADIT-II era rispettivamente di 60 e 64 anni, contro i 69 anni dei pazienti trattati con ICD in Italia negli anni 2005-2007”, spiegano gli autori. “L’impianto di un ICD in prevenzione primaria si configura pertanto sempre più spesso come una scelta clinica difficile e controversa, non supportata adeguatamente da solide linee guida o evidenze scientifiche. In questo scenario, infatti, il solo parametro basato sull’evidenza a nostra disposizione è la frazione di eiezione ventricolare sinistra che appare talora un elemento non sufficiente per decidere sul singolo paziente”. Un basso valore di FEVS inferiore come indicato nelle linee guida non dovrebbe generare automaticamente l’indicazione all’impianto di ICD. Nella scelta vanno soppesati anche altre variabili cliniche, anagrafiche, strumentali e contestuali che guardino non solo alla complessità clinica del paziente ma anche al suo vissuto.

“Appare pertanto di fondamentale importanza – continuano gli autori – l’individuazione di modelli di valutazione del rischio multiparametrici, che contribuiscano a creare solide basi scientifiche basate sull’evidenza e che forniscano al clinico un valido strumento per una migliore selezione dei pazienti candidabili ad impianto di ICD. D’altro canto, è necessario che ogni medico sviluppi la capacità di attuare scelte personalizzate, ponderate e razionali, che tengano in considerazione la complessità del singolo paziente, mostrando attenzione anche verso aspetti di medicina responsabile e sostenibile.”

Conclusioni
Come sottolinea il Giornale la Rassegna di Laura Vitali Serdoz et al. offre “spunti di riflessione sull’uso più appropriato dell’ICD non solo nell’ottica di un uso razionale delle nostre limitate risorse in un’era di incertezza economica e di crisi finanziaria, ma soprattutto per risparmiare ai pazienti trattamenti inutili se non addirittura in qualche caso dannosi”.

Bibliografia
Laura Vitali Serdoz, Enrico Fabris, Cristina Lutman, et al. Morte cardiaca improvvisa nella disfunzione ventricolare da cardiopatia ischemica: il ruolo del defibrillatore impiantabile tra evidenze, linee guida e buon senso clinico. G Ital Cardiol 2012; 13: 592-601 (PDF: 216 Kb)

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