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La cura del paziente terminale con ICD

Discutere preliminarmente con i pazienti terminali portatori di ICD se e quando disattivare il dispositivo potrebbe servire a ridurre il rischio di scariche negli ultimi giorni di vita che possono provocare sensazioni dolorose e stress psicologico. Le riflessioni alla luce del sottostudio MADIT-II pubblicato su PACE.

La scelta di disattivare le terapie antitachicardiche dell’ICD nel paziente terminale è un problema etico emergente che coinvolge tanto pazienti e familiari quanto clinici e ricercatori. Le ragioni che portano a valutare la disattivazione o meno del defibrillatore nella fase terminale della vita possono essere di natura diversa ma principalmente riguardano l’alto livello di sofferenza fisica ed emotiva che alcuni pazienti possono presentare per l’occorrenza di scariche dell’ICD (qualità della vita) e i nuovi scenari di fine vita che la sospensione del dispositivo prospetta (qualità della morte).

Tuttavia, nonostante diverse survey abbiamo evidenziato che per la maggior parte sia gli operatori sanitari e i legali sia i pazienti concordino sul fatto che la disattivazione debba essere contemplata nella fase terminale della vita, le resistenze e le incertezze sono ancora molte e i medici curanti spesso non discutono tempestivamente con i loro pazienti della possibilità di sospendere il dispositivo.

Una sottoanalisi dello studio MADIT-II, pubblicata in anteprima online sulla rivista PACE, richiama l’attenzione su questo delicato e complesso aspetto della pratica clinica. Come spiegano gli autori, l’obiettivo principe dello studio è stato esaminare come è stato gestito l’ICD in pazienti in fase terminale in un sottogruppo di pazienti arruolati nello studio multicentrico MADIT-II e secondariamente esplorare quei parametri clinici che inducono a disattivare il dispositivo nei pazienti in condizioni ormai terminali.

Lo studio
Lo studio ha preso in esame retrospettivamente le cartelle cliniche di 98 pazienti portatori di ICD arruolati nello studio MADIT-II e poi deceduti nel corso del follow up. Per ciascun paziente sono stati raccolti i dati demografici e clinici, le registrazioni degli episodi trattati con shock dall’ICD prima del decesso, ed informazioni sulle eventuali discussioni e scelte perseguite dal paziente di disattivare il dispositivo in un’ottica di miglioramento della qualità della fase terminale della vita o di far ricorso alle cure palliative o all’ordine di non essere rianimato in caso di arresto cardiaco.

Ne è emerso che dei 98 pazienti presi in esame, 15 avevano fatto ricorso alla disattivazione dell’ICD dai 0 ai 71 giorni prima de decesso (gruppo 1, 15%), 36 avevano fatto richiesta di ricovero in un hospice o si erano appellati all’ordine di non rianimare (DNR, Do Not Resuscitate) (gruppo 2, 37%), mentre i restanti 47 pazienti non avevano espresso nessuna di queste volontà (gruppo 3, 48%).

Gli autori riportano che in 11 pazienti del gruppo 1 il dispositivo era stata disattivato una settimana prima del decesso e nei restanti cinque pazienti il giorno stesso del decesso. L’evento principe che aveva portato alla discussione e/o scelta di ricorrere alla disattivazione del dispositivo era stato l’ospedalizzazione con un rapido deterioramento delle condizioni cliniche che aveva richiesto cure di conforto e una modificazione delle volontà scritte (code status).

Nelle ultime 24 ore di vita in nessun paziente del gruppo 1 erano state registrate delle scariche (0%), mentre lo erano state in un paziente del gruppo 2 (3%) e in nove pazienti del gruppo 3 (19%) (P = 0.03). Nell’ultima settimana di vita avevano ricevuto delle scariche tre pazienti del gruppo 1 (20%), due del gruppo 2 (6%) e tre del gruppo 3 (13%) (P = 0.28).

Conclusioni
Il risultato principale di questa sottoanalisi MADIT-II, commentano gli autori, è la bassa frequenza di disattivazione del dispositivo elettrico nelle fasi terminali della vita del paziente. Infatti, nella gran parte dei casi esaminati il dispositivo era stato disattivato nella settimana antecedente il decesso. Nell’arco di questo stesso periodo il 20% dei pazienti del gruppo 1 avevano ricevuto delle scariche, a fronte il 6% dei pazienti del gruppo 2 e il 13% dei pazienti del gruppo 3. È quindi plausibile che l’alta frequenza insieme al deterioramento clinico abbia contribuito a far optare per la disattivazione dell’ICD.

Discutibile inoltre il ritardo con cui viene affrontata la discussione con pazienti e familiari sulla possibilità di disattivare il dispositivo quando il trattamento con ICD potrebbe diventare inconsistente rispetto alle prospettive di vita del paziente. Ancora spesso questi temi vengono affrontati nelle fasi terminali avanzate quando il paziente è ormai a rischio di morte imminente.

Questo studio, concludono gli autori, riassume come è stato gestito l’ICD nelle fasi terminali dei pazienti arruolati nello studio MADIT-II e apre diversi punti di discussione su come sia meglio gestire la qualità di vita del paziente terminale con ICD. Una gestione attiva dell’impianto ICD con una discussione tempestiva sulla eventuale disattivazione del dispositivo potrebbe ridurre il rischio di scariche negli ultimi giorni di vita.

Bibliografia
Sherazi S, Mcnitt S, Aktas MK, et al. End-of-Life Care in Patients with Implantable Cardioverter Defibrillators: A MADIT-II Substudy. Pacing and Clinical Electrophysiology. PACE 2013; Article first published online: 3 jun 2013 DOI: 10.1111/pace.12188

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