La sindrome del QT lungo: betabloccanti a confronto
I betabloccanti non si equivalgono nel trattamento della sindrome del QT lungo di tipo 1 e di tipo 2. Uno studio multicentrico pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology conclude che il propranololo è il più efficace in termini di riduzione dell’intervallo QTc. Nei pazienti sintomatici il metoprololo si associa a un maggior rischio di eventi cardiaci rilevanti.
I betabloccanti rappresentano il trattamento cardine della sindrome congenita del QT lungo (LQTS), sia di tipo 1 (LQT1) sia di tipo 2 (LQT2). La terapia betabloccante è efficace nel ridurre la mortalità e gli eventi cardiaci associati a questa patologia aritmogena su base genetica che nella maggioranza dei pazienti si caratterizza per un prolungamento dell’intervallo QT. Tra i diversi betabloccanti impiegati nella gestione di questi pazienti il più studiato è il propranololo che ha dimostrato di diminuire e prevenire l’aumento della dispersione transmurale della ripolarizzazione in risposta a forti stimolazioni del sistema nervoso simpatico, meccanismo questo che contribuisce al suo effetto antiaritmico.
Oltre al propranololo vengono comunemente usati anche altri betabloccanti quali il metoprololo e il nadololo. Tuttavia un’ipotesi corrente è che non tutti i betabloccanti garantiscano un’equivalente protezione nelle LQTS e che questa diversa efficacia possa contribuire a un fallimento della terapia. Deve infatti essere considerato che nel corso della terapia con betabloccanti il 20-30% dei pazienti sintomatici presenta eventi cardiaci rilevanti (breakthrough cardiac event, BCE).
Per verificare questa ipotesi è stato condotto uno studio multicentrico, a firma di Priya Chockalingam e colleghi, che per la prima volta ha messo a confronto l’efficacia dei betabloccanti propranololo, metoprololo e nadololo nella gestione delle LQTS comparando il profilo clinico e le caratteristiche elettrocardiografiche dei giovani pazienti all’inizio della terapia con betabloccanti e nel corso della terapia e valutando l’insorgenza dei primi BCE nel follow up. I risultati dello studio, pubblicati sul Journal of the American College of Cardiology, confermano una diversa efficacia e sicurezza di questi tre betabloccanti: il propranololo supera il nadololo e il metoprololo in termini di efficacia dell’accorciamento dell’intervallo QTc, e il metoprololo presenta un rischio significativamente più alto nei pazienti sintomatici geneticamente positivi per LQT1 e LQT2.
Lo studio
Lo studio ha coinvolto pazienti, con segni elettrocardiografici di QT lungo (QTc 472 ± 46 ms) e positivi al test genetico per le mutazioni associate alla sindrome del LQT1 o LQT2, in terapia con betabloccanti da quando avevano più di un anno di età. Sono stati analizzati dati clinici ed elettrocardiografici dei pazienti dall’inizio della terapia, tenendo in considerazione anche un eventuale cambio di betabloccante o interruzione della terapia e la comparsa nel corso del trattamento di eventi cardiaci rilevanti (BCE) che comprendevano sincope, arresto cardiaco abortito, shock defibrillatore impiantabile appropriato, e morte cardiaca improvvisa.
In tutto sono stati arruolati 382 pazienti trattati con betabloccanti di un’età mediana di 14 anni (range interquartile: da 8 a 32 anni); di questi, 134 con propranololo, 147 con metoprololo e 101 con nadololo. La frequenza cardiaca basale era di 76 ± 16 battiti/min e il QTc basale di 472 ± 46 ms con dei valori medi differenti nei tre gruppi di betabloccanti in esame. Prima di iniziare la terapia, 101 pazienti (27%) erano sintomatici e la sincope era il sintomo più frequente.
L’analisi dei dati clinici e dei tracciati elettrocardiografici ha evidenziato un accorciamento dell’intervallo QTc significativamente maggiore nel gruppo di pazienti trattati con propranololo rispetto sia al metoprololo (p = 0,003) sia al nadololo (p = 0,004) nella totalità dei pazienti analizzati (anche nel sottogruppo con QTc prolungato > 480 ms).
Nel follow up non sono stati riscontrati eventi cardiaci rilevanti (BCE) in nessuno dei pazienti asintomatici, di contro una parte dei pazienti sintomatici (15 su 101) avevano avuto episodi di sincope. Un maggior rischio di BCE è stato riscontrato tra i pazienti sintomatici in terapia con metoprololo (29%) rispetto a quelli in trattamento con propranololo (8%) o nadololo (7%) (p = 0,018), anche dopo aggiustamento per genotipo (odds ratio: 3,95, intervallo di confidenza al 95%: da 1,2 a 13,1, p= 0,025). Le curve di Kaplan-Meier hanno inoltre evidenziato una sopravvivenza libera da eventi significativamente più bassa in questa categoria di pazienti sintomatici in terapia con metoprololo.
Conclusioni
Per la prima volta è stato dimostrato che i diversi betabloccanti non hanno la stessa efficacia come antiaritmici nella gestione del LQTS. “Un dato importante emerso dallo nostra analisi – commentano gli autori – è l’evidenza di un correlazione tra l’efficacia antiaritmica di betabloccanti e la loro capacità di ridurre l’intervallo QT”. Il propanololo è infatti superiore sia al nadololo sia al metoprololo nel ridurre il tempo di ripolarizzazione cardiaca, in particolare nei pazienti ad alto rischio con un marcato prolungamento del QTc.
Un altro risultato significativo dello studio multicentrico, se non il più importante come sottolineano gli autori, riguarda gli outcome clinici con la correlazione tra betabloccante e comparsa di eventi cardiaci avversi. I pazienti sintomatici trattati con metoprololo hanno infatti un rischio quattro volte maggiore di BCE rispetto ai pazienti in terapia con propanololo e nadololo. Questi due ultimi betabloccanti sono ugualmente efficaci nel ridurre il rischio di eventi cardiaci avversi in pazienti sintomatici. Alla luce di queste nuove evidenze, i clinici dovrebbero prendere seriamente in considerazione l’uso del propanololo o nadololo, e non del metoprololo, come terapia di prima linea dei pazienti sintomatici geneticamente positivi per LQT1 e LQT2.
È importante sottolineare che i risultati di Priya Chockalingam e colleghi sono interessanti ma non conclusivi. Si rendono necessari altri studi con pazienti arruolati in registro più ampio per arrivare a delle conclusioni definitive sulla efficacia e sicurezza dei diversi betabloccanti nella gestione della LQTS.
Bibliografia
Chockalingam P, Crotti L, Girardengo G, et al. Not All Beta-Blockers Are Equal in the Management of Long QT Syndrome Types 1 and 2. J Am Coll Cardiol 2012; 13: 2092-9.
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