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Squadra che non vince si cambia: quando l’amiodarone non è sufficiente…

L’impianto dell’ICD nei pazienti sopravvissuti ad un infarto miocardico con funzione sistolica depressa è la strategia di prima scelta per la prevenzione primaria della morte cardiaca improvvisa. Tuttavia, alcuni pazienti possono presentare tachicardie ventricolari ricorrenti nonostante una terapia antiaritmica. Lo studio VANISH, pubblicato sul New England Journal of Medicine, valuta l’efficacia dell’ablazione mediante catetere rispetto al solo potenziamento della terapia antiaritmica in pazienti con episodi ricorrenti di tachicardia ventricolare portatori di ICD.

Il miglioramento delle strategie terapeutiche e la conseguente riduzione della mortalità legata all’infarto miocardico hanno determinato un progressivo incremento del numero dei pazienti affetti da scompenso cardiaco. Lo scompenso cardiaco è l’unica patologia cardiovascolare maggiore la cui prevalenza continua ad aumentare; si stima che nei soli Stati Uniti d’America circa 5,1 milioni di persone siano affette da tale patologia. Le due cause principali di morte nei pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione ridotta sono la progressiva perdita di efficienza della pompa cardiaca e la morte cardiaca improvvisa secondaria a tachiaritmie ventricolari.

La tachicardia ventricolare è una comune complicanza nei pazienti sopravvissuti ad un infarto dei miocardio ed il substrato predisponente è proprio la presenza di una cicatrice infartuale. In determinate condizioni, l’impianto di un ICD riduce significativamente il rischio di morte su base aritmica. Sebbene l’ICD possa terminare efficacemente un’aritmia ventricolare potenzialmente fatale, la presenza di tachicardie ventricolari ricorrenti e frequenti shock del defibrillatore non solo hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del paziente ma sono associate ad un aumentato rischio di morte e scompenso cardiaco. In tal caso, una terapia antiaritmica adeguata permette di ridurre il numero di aritmie ventricolari e, di conseguenza, il numero di shock erogati dal defibrillatore (1). Qualora neanche la terapia antiaritmica riesca a controllare le recidive aritmiche, si può optare per un potenziamento della terapia farmacologica o per l’ablazione transcatetere dell’eventuale circuito di rientro responsabile delle aritmie ventricolari. Fra i farmaci antiaritmici, è stato dimostrato che l’amiodarone riduce del 71% le aritmie ventricolari e la conseguente mortalità per cause aritmiche. Tuttavia, una terapia a lungo termine con amiodarone espone il paziente ad un sostanziale rischio di effetti collaterali legati al farmaco, in particolare polmonari e tiroidei (2).

Lo studio Ventricular Tachycardia Ablation versus Escalated Antiarrhythmic Drug Therapy in Ischemic Heart Disease (VANISH) di John L. Sapp e collaboratori (2), pubblicato sul New England Journal of Medicine, ha messo a confronto l’ablazione mediante catetere ed il potenziamento della terapia antiaritmica per la prevenzione delle recidive di tachicardia ventricolare in pazienti sopravvissuti ad infarto del miocardio portatori di ICD.

Lo studio

Lo studio randomizzato ha arruolato 259 pazienti, di cui 132 sono stati indirizzati all’ablazione transcatetere e 127 ad un potenziamento della terapia antiaritmica.

Per il potenziamento della terapia antiaritmica è stato seguito il seguente schema:

  • ai pazienti che assumevano farmaci antiaritmici diversi dall’amiodarone è stata somministrata una dose carico di amiodarone di 400mg due volte al giorno per 2 settimane, una dose di 400mg/die per 4 settimane e di 200mg/die a seguire;
  • ai pazienti che assumevano una dose giornaliera di amiodarone inferiore a 300mg, è stata somministrata una dose carico di 400mg due volte al giorno per 2 settimane, una dose di 400mg/die per 4 settimane e di 300mg/die a seguire;
  • ai pazienti che già assumevano una dose giornaliera di amiodarone superiore a 300mg è stata aggiunta in terapia la mexiletina alla dose di 200mg tre volte al giorno.

Per endpoint primario si sono considerati la morte, l’insorgenza di uno storm aritmico entro 24 ore (3 o più episodi documentati di tachicardia ventricolare) o lo shock appropriato dell’ICD dopo 30 giorni di terapia.

Durante un follow-up medio di circa 28 mesi, l’endpoint primario è stato raggiunto dal 59.1% dei pazienti nel gruppo ablazione e dal 68.5% dei pazienti in terapia antiaritmica (P=0.04). Non sono state osservate differenze significative in termini di mortalità. In totale, sono stati osservati due casi di perforazione cardiaca e tre di sanguinamenti maggiori nel gruppo sottoposto ad ablazione transcatetere e due decessi per tossicità polmonare e tre per insufficienza epatica nel gruppo sottoposto a potenziamento della terapia antiaritmica.

Conclusioni

Nei pazienti sopravvissuti ad infarto miocardico e portatori di ICD, che presentano episodi ricorrenti di tachicardia ventricolare nonostante una terapia antiaritmica, l’ablazione mediante catetere riduce il tasso di mortalità ed il rischio di recidive aritmiche rispetto al solo potenziamento della terapia antiaritmica. In aggiunta, il potenziamento della terapia antiaritmica espone il paziente ad un rischio maggiore di effetti collaterali anche gravi legati ai farmaci.

Domenico Giovanni Della Rocca, MD
Dipartimento di Cardiologia, Policlinico “Tor Vergata”, Roma

Bibliografia

  1. Connolly SJ, Dorian P, Roberts RS, et al. Comparison of beta-blockers, amiodarone plus beta-blockers, or sotalol for prevention of shocks from implantable cardioverter defibrillators: the OPTIC Study: a randomized trial. JAMA. 2006;295(2):165-71.
  2. Bokhari F, Newman D, Greene M, et al. Long-term comparison of the implantable cardioverter defibrillator versus amiodarone: eleven-year follow-up of a subset of patients in the Canadian Implantable Defibrillator Study (CIDS). Circulation. 2004;110(2):112-6.
  3. Sapp JL, Wells GA, Parkash R, et al. Ventricular Tachycardia Ablation versus Escalation of Antiarrhythmic Drugs. N Engl J Med. 2016 May 5.

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